Chi era don Folli? Un prete rosso come erano soliti definirlo i suoi detrattori, giocando malignamente sull’equivoco della sua fulva capigliatura o un vero uomo di Dio? Nato a Premeno il 17 settembre 1881 da Giuseppe Folli e da Caterina Tamburino, intraprende gli studi presso il seminario di Porta Venezia a Milano e riceve l’ordinazione nel 1904. Fin d’allora dimostra la sua apertura e la sua sensibilità verso le problematiche politiche e sociali, manifestando la sua solidarietà con le prime «battaglie operaie» del 1898. Vestito in borghese, si reca in Toscana a tenere comizi insieme con don Davide Albertario, fondatore dei Fasci Cristiani (siamo nel 1918), prima ancora dell’avvento di Mussolini e dei Socialisti, al grido di «Operai cristiani unitevi in Cristo!». Accusato di Modernismo, come del resto l’arcivescovo di Milano, cardinal Andrea Ferrari, subisce una sorta di immeritato esilio: coadiutore a Cislago, a Tradate ed in seguito a Caldana, questa volta come parroco. Don Piero è un uomo che reagisce apertamente contro le ingiustizie e i soprusi; antifascista dichiarato, è sottoposto ad angherie di ogni tipo, compresa la famigerata punizione fascista dell’olio di ricino. Approda a Voldomino, paese di millesettecento anime, a pochi passi dal confine svizzero, nel 1923. Gia fin dai primi giorni del suo ministero, i Voldominesi hanno la misura della sua grande statura morale e del suo alto magistero pastorale. Coraggioso ed audace, non esita a denunciare le violenze e le prevaricazioni della dittatura fascista. La sua predicazione attinge alle fonti cristalline del pensiero cristiano. «La carità verso il prossimo - dice dal pulpito -: ecco la base delle relazioni cogli altri. L’uomo non è un solitario; non nasce solo, non vive solo: da solo è soltanto capace di morire. Separare perciò nella vita noi dagli altri è impossibile, è ineffettuabile e nessuno è così sciocco da negare che, oltre a lui, vi siano degli altri che con lui vivono, con lui sono in relazione, con lui hanno una infinità di interessi e con lui partecipano a gioie e dolori. Gli altri ci sono e sono con noi e non possiamo non riconoscere praticamente in loro i diritti di una vita libera, non possiamo negar loro un fine, uno scopo individuale e personale, perché con la nostra azione li ipotechiamo a nostro esclusivo vantaggio e soffochiamo in loro ogni tentativo d’azione per sé medesimi». Messaggi vigorosi soprattutto in un clima di oppressione della libertà individuale come quella instaurata da un regime dove ognuno doveva conformarsi agli slogan e alle parole d’ordine del duce. A questa scuola hanno attinto i giovani voldominesi che si sono immolati per il bene comune, dimenticando se stessi. «La carità - soleva dire don Folli - è la virtù che distrugge l’egoismo e ci pone in condizione di mantenere nell’amore le relazioni con gli altri». Su questi principi si modella tutta la sua azione pastorale. .
Dopo l’8 settembre ’43, arrivano a Voldomino perseguitati politici, Ebrei ricercati, prigionieri alleati, fuggiti dai campi di concentramento, giovani renitenti alla leva. È il momento di tradurre in pratica gli insegnamenti impartiti per tanti anni. Tutto un popolo si schiera al suo fianco. La casa parrocchiale si spalanca, il vecchio oratorio di S. Liberata è invaso da centinaia di persone, accolte, rifocillate aiutate ad espatriare. «No, non può farcela, l’uomo è troppo spossato, rischierebbe di morire lungo il tragitto. L’acqua della Tresa è gelida e di passare a guado non se ne parla neppure. Le sue condizioni di salute sono precarie e sulla linea di confine la sorveglianza è stata ulteriormente intensificata!» Queste le preoccupazioni della solita congrega di contrabbandieri che soleva radunarsi in canonica con don Folli: gente avvezza ad ogni rischio, abituata a varcare il confine non solo nelle notti di luna piena. Un mestiere, quello dello spallone, così diffuso a Voldomino e nei paesi limitrofi da non suscitare né meraviglia né sdegno. Si tratta di pura e semplice necessità, per sfamare una nidiata di figli sempre più numerosa, mentre il lavoro, anche precario, sta diventando un lusso per pochi privilegiati. Don Folli non li considera dei disonesti, consapevole della miseria nera che attanaglia molte famiglie, ormai ridotte allo stremo dalla politica autarchica del regime. Da malviventi di piccolo cabotaggio li trasforma in salvatori di perseguitati politici e di Ebrei. Per ogni persona che accompagnano, don Folli consegna loro un foglietto: varcato il confine svizzero, deve essere sottoscritto e riportato al mittente, come sicuro riscontro dell’avvenuto espatrio. In quei giorni era giunto a Voldomino un personaggio di grosso calibro, membro del partito comunista, il futuro senatore Mauro Scoccimarro che sarebbe poi diventato ministro della Repubblica. Da un angolo del focolare si leva una voce cavernosa, ma chiara: «Rivolgiamoci al Sassi!» Il Secondo Sassi era un provetto fabbro di Germignaga, attivo militante nel PCI e per questo espulso dalle FFSS. Detto fatto, una delegazione si reca da lui ed in meno che non si dica si sbroglia la matassa. «Lo costruirò io un trabiccolo, ve lo garantisco, e domani mattina sul filo della teleferica che attraversa la Tresa, lo faremo scivolare lemme lemme fino in terra svizzera!» Il Sassi, che in aderenza al suo nome è veramente una roccia, lavora tutta la notte, senza alzare la testa dall’incudine. Finiti entrambi in carcere, Don Folli ed il Sassi diventano amici per la pelle, tanto che quest’ultimo diceva spesso: “Noi siamo come il diavolo e l’acqua santa, ma tutte due siamo solo dei poveri diavoli!” . Quante le persone salvate da don Folli? Impossibile azzardare cifre, ma certamente più di un migliaio e, tra queste, personalità di spicco quali Guido Miglioli, Piero Malvestiti, il già ricordato Mauro Scoccimarro, Dino Segre, più conosciuto come Pittigrilli. Sarà proprio lui che nel romanzo «Mosè e il cavalier Levi» esalterà la carità del parroco di Voldomino che lo aveva ospitato insieme alla moglie ed al figlio e ritroverà in questa esperienza motivi per una sua crescita spirituale. igrilli. Sarà proprio lui che nel romanzo “Mosè e il cavalier Levi” esalterà la carità del parroco di Voldomino che lo aveva ospitato insieme alla moglie ed al figlio e ritroverà in questa esperienza motivi per una sua crescita spirituale.
3 dicembre 1943: un branco di fascisti e di tedeschi fa irruzione nella casa parrocchiale di Voldomino, dove è stata offerta ospitalità a quindici ebrei, in maggioranza donne e bambini che si apprestano a varcare il confine per sfuggire alle persecuzioni razziali. Sono stati inviati da don Repetto, segretario dell’arcivescovo di Genova, cardinal Boetto e accompagnati da don Gian Maria Rotondi. Sono le 17.00: un colpo di pistola infrange i vetri dell’antico oratorio di S. Liberata, un locale accanto alla canonica dove i fuggiaschi sono stati rifocillati prima di intraprendere il lungo viaggio tra i boschi verso la «terra promessa» oltre frontiera. Con i due sacerdoti ci sono anche l’ing. Mario Bongrani ed il rag. Pio Alessandrini, futuro senatore della Repubblica. Una pallottola sfiora l’anziana domestica che s’accascia priva di sensi. Le squadracce fasciste irrompono nella casa e mettono tutto sottosopra. Fortunatamente non frugano in un tiretto dove sono custodite le schede che testimoniano gli altri passaggi. Bongrani e Alessandrini riescono a dileguarsi, ma per don Folli inizia il suo martirio. Legato all’inferriata del cortiletto, viene percosso a sangue perché riveli i nomi dei collaboratori. Un ciuffo di capelli gli viene strappato, ma l’uomo di Dio non parla e non parlerà neppure in seguito. I quindici Ebrei vengono snidati e, mani sulla nuca, costretti a marciare sotto la pioggia. Un bimbo sviene: nessuno conoscerà mai la sua sorte, né quella degli altri. Gettati nel profondo del lago? Forse. In paese vengono arrestati anche Dante Moroni e il portalettere Ludovico Berzi, una guida nella rete di soccorso. Intanto a Germignaga ugual sorte subisce Secondo Sassi, il vecchio militante comunista. Presso l’Albergo Elvezia viene interrogato e fatto segno alle più crudeli torture. Gli sgherri vogliono ad ogni costo strappargli una confessione che consenta loro di individuare gli antifascisti luinesi. Ridotto ad una maschera di sangue, col corpo a brandelli, Secondo Sassi non parlerà. Poi la detenzione nel carcere di S. Vittore dove don Folli conosce il pittore Zagni, un incallito marxista che, tuttavia, non disdegna la compagnia di quel prete eccezionale. «Senta don Piero - gli dice una sera - lei chieda a quello lassù la nostra salvezza, perché senz’altro l’ascolta di più e le prometto che se io e lei riusciremo a salvare la pelle, verrò nella sua parrocchia e le lascerò un mio dipinto a ricordo della grazia ricevuta per mezzo suo». Nasce così tra questi due uomini tanto diversi tra loro, ma uniti da un unico anelito di libertà, un’amicizia destinata a consolidarsi nel tempo.
A cura di Emilio Rossi
Ritratto di Don Piero Folli nel racconto di don Marco Baggiolini